Partito

ll Libro: Il PCI bresciano. Una breve storia 1921-1990

IL CAPITALE UMANO.FOTO DI GRUPPO CON PCI - Il Libro: Il PCI bresciano. Una breve storia 1921-1990
di Massimo Tedeschi
(Corriere della Sera, Giovedì 25 marzo 2021)
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Quando il Partito comunista italiano nacque cent’anni fa, da una scissione durante il congresso socialista di Livorno del 15-21 gennaio 1921, la provincia di Brescia era una “cenerentola” nella geografia del nuovo partito. I bresciani assegnarono a Bordiga 230 dei 1268 voti congressuali di cui disponevano e quando - due settimane dopo - in piazzetta Legnano in città aprì la prima sezione del nuovo Partito, che aveva nel sindacalista Marcello Verdina il dirigente più esperto, il PdCi di Brescia era povero di quadri e risorse finanziarie, privo di addentellati nella realtà cooperativistica e nell’associazionismo operaio. Improntato a un’organizzazione di tipo militare (gli “Arditi del popolo”), animato da propositi rivoluzionari, nelle elezioni di maggio misurò nel Bresciano tutta la propria debolezza: ottenne 521 voti contro i 37mila dei socialisti, i 44mila dei popolari, i 25mila del blocco liberale. Un’avanguardia esigua e disorganizzata, schematica nelle analisi, in attesa messianica della rivoluzione, ossessionata dalla polemica contro i socialisti che però a Brescia non lasciavano spazio, essendo in maggioranza massimalisti (dunque “di sinistra”). Nel 1922 il PdCi a Brescia ha 108 iscritti, già esposti a licenziamenti e arresti. Ci vorrà l’arrivo di un’altra frangia scissionista dei socialisti, nel 1924, per irrobustire le fila di un partito che, inquinato da informatori della polizia, verrà subito scompaginato ed entrerà infine in clandestinità.
A cent’anni dalla nascita del Pci nazionale anche il partito bresciano ha ora un suo manuale storico grazie al libro “Comunisti. Il Pci bresciano. Una breve storia 1921-1990” (Liberedizioni, pp. 152, euro 15) promosso dalla Fondazione Ds Brescia. Il curatore Marcello Zane ha chiesto a quattro autori – Gianfranco Porta, Paolo Corsini, Paolo Pagani e Claudio Bragaglio  - storie, racconti e testimonianze dei settant’anni di storia dei comunisti bresciani. In attesa che qualcuno cominci a studiare il ponderoso archivio del partito, in fase di riordino presso la Fondazione Micheletti, questo è il più aggiornato manuale a disposizione. I dilemmi della collocazione internazionale del partito, le dispute ideologiche, le sconfitte della Storia rimangono sullo sfondo. Anzi c’è una certa propensione ad iscrivere a posteriori il Pci nel fronte della socialdemocrazia europea, sorvolando sul fatto che l’Italia non ha avuto la sua Bad Godesberg, che lo “strappo” di Berlinguer con l’Urss nel 1981 non divenne rottura, che quando Umberto Terracini nel 1982 affermò che “a Livorno aveva ragione Turati” la sua uscita venne accolta con imbarazzo, e che il Partito approdò all’Internazionale socialista solo nel 1992, quando il Pci non c’era più, il muro di Berlino era caduto e sulla scena c’era il Pds.
“Comunisti” lascia sullo sfondo questi aspetti, che fanno della storia del Pci un nodo sostanzioso e controverso, insomma non “pacificato” della storia italiana. In compenso il libro offre un racconto – ora partecipe, ora affettuoso – degli uomini e delle donne che hanno speso la vita per un ideale, un credo politico, un’organizzazione ferrea, uno slancio morale, una passione militante, un governo progressivo delle istituzioni e della società bresciana. “Comunisti”, appunto.


Il PD di Letta: centralità della coalizione

Chi ritiene Letta l’ultima “chance” per il PD deve imporsi un chiarimento sugli errori di questi anni. Compresa la liquidazione dell’Ulivo. Tale “svolta” riguarda non solo Renzi, diventato l’alibi sbrigativo per troppi “gattopardi”. Dopotutto anche Renzi è stato a tutti gli effetti il PD, con il 70% dei consensi alle primarie, e non già una improvvida “deviazione”.
Se un Letta segretario dice “coalizione” e Veltroni, nel sostenere Letta, dice “o il PD è a vocazione maggioritaria o non è” significa sostenere tesi opposte. Con Veltroni che ripete se stesso dal 2007, ma avendo fatto il Segretario - dopo aver vinto con 3,5 milioni di votanti alle primarie – solo per 16 mesi per poi andarsene. In fatto di “verità”, quella richiesta da Letta, si procede ancora nella nebbia.
Se la “vocazione maggioritaria” è un richiamo all’interesse nazionale d’un partito, ci sta. Ma se invece è una politica dirimente significa che il “focus” della battaglia si sposta nel campo degli alleati, tutt’altro che bendisposti verso “vocazioni minoritarie” o a dover sparire in omaggio alle vocazioni del PD. Infatti…
Non è storia solo di oggi pensando alle divisioni tra il PCI berlingueriano ed il PSI craxiano, con il dibattito aspro sulla “egemonia” intavolato allora da Norberto Bobbio, con l’epilogo che sappiamo. “Avversari”, quindi, diventano proprio gli amici recalcitranti a fronte d’un loro ruolo minoritario. Ed è ciò che è già avvenuto quando le “vocazioni maggioritarie” si sono divise tra i fautori d’un partito democratico sul modello americano (Prodi) ed i sostenitori del modello socialista europeo (D’Alema). Il tutto giocato - allora sulle spoglie d’un Ulivo da poco nato – anche sul referendum attivato nel 1998 per l’abolizione della quota proporzionale del 25% del Mattarellum.
Ma se Letta evoca oggi il Mattarellum, e non già per parlarci della preistoria, è un problema.
L’Ulivo s’è sfasciato sullo scoglio, più che delle 35 ore di Bertinotti, sulla minaccia della liquidazione delle liste di partito presenti in quel 25% di proporzionale, che era poi l’anticipo del “partito unico” dell’Ulivo. Si dirà: bassa cucina. Già ma pur sempre cucina di cui vive la politica, se immaginata nel suo pluralismo e nelle sue autonomie di partito.
La “vocazione maggioritaria” tende per logica di cose – vedi Veltroni al Lingotto – al bipartitismo e comporta una legge elettorale maggioritaria conseguente. Ma anche un relativo “fuoco amico”!

Un convinto consenso per Letta Segretario

La proposta della candidatura di Enrico Letta alla Segreteria Nazionale del PD - che mi auguro possa da lui venir accolta -  merita, a mio parere, di essere condivisa e convintamente sostenuta.
La necessita di “salvare il PD, rinnovandolo” è assolutamente inderogabile, in particolare con riferimento alla profonda crisi che vive il Paese ed alla necessità che il Governo Mattarella-Draghi sia all’altezza del suo difficile compito, pienamente sostenuto dal PD e dal centro sinistra.
Per questo è per nulla opportuna la soluzione transitoria di un “reggente” e l’immediata indizione di un Congresso con mesi di ulteriori tensioni, sconquassi ed instabilità, magari fomentati da settori per quanto marginali del partito stesso, come peraltro è avvenuto ed ha denunciato il segretario Zingaretti con le sue stesse dimissioni.
Bisogna “ritornare allo Statuto”, con i gruppi dirigenti che si assumono le proprie responsabilità, con i Congressi celebrati a scadenze statutarie. Dando così al Segretario eletto lo spazio e la fiducia della propria azione politica, con il voto di una Assemblea con un migliaio di delegati congressuali pienamente legittimati.
In Letta si riflettono capacità, autorevolezza, una linea che dall’Ulivo al PD, ha rappresentato una componente cattolico democratica costitutiva del pluralismo del PD, aperta da sempre al dialogo con la sinistra riformista e le altre componenti liberaldemocratiche ed ambientaliste. Con un’idea di centro sinistra particolarmente attenta al mondo del lavoro e dei ceti produttivi. Così come Letta ha dimostrato nel tempo con intensi rapporti con le aree del Nord, della Lombardia e con il rapporto coltivato con la stessa realtà bresciana, che lo ha visto frequentemente presente ed attivo.

Con Zingaretti. Sono in gioco l’autonomia ed il futuro del PD

Vi sono momenti drammatici di verità a cui non potersi sottrarre. Così ha fatto Zingaretti, con uno strappo profondo nel PD. E – finalmente - ha fatto bene a farlo, a fronte della vergogna coltivata – e da lui denunciata – da una parte dello stesso PD. Ognuno di noi - al di là di correnti o di responsabilità: la mia quella di Presidente della Direzione lombarda del PD – oggi si ritrova solo davanti allo specchio di se stesso. Senza alibi od ipocrisie da esibire. Mi auguro che la determinazione delle dimissioni, espressa dal segretario Zingaretti, venga da lui riconsiderata anche alla luce delle richieste del loro ritiro, ampiamente sollecitate all’interno del PD. Ma non solo.
In ogni caso un chiarimento si rende indispensabile e mi auguro che sia nei termini di un aut..aut... O di qui o di là. Gli appelli farisaici all'unità servono solo a guadagnare del tempo per predisporre nuove incursioni e destabilizzazioni. Va posto quindi finalmente fine, nel pieno della crisi pandemica e sociale, ad ipocrisie, a velenose lotte sotterranee, al doppiogiochismo, all’infondata accusa d’una subalternità al M5S, ad un logoramento suicida del partito e dello schieramento progressista. Ma, non di meno, a quell’ambigua sollecitazione da “par condicio” per un rientro – come ha proposto Bonaccini - sia di Renzi che di Bersani. La paralisi totale. Scegliendo invece con chiarezza anche in base, non ad un ambiguo unanimismo, ma ad una logica esplicita di maggioranza e di minoranza interna al PD - una scelta politica coerente, anche in fatto di guida politica. Tra la ricostruzione di un centro sinistra a sostegno del governo Draghi od una deriva centrista, di matrice renziana, con relativa ed auspicata esplosione del PD stesso.
E' soprattutto in gioco l’autonomia stessa del PD e del suo gruppo dirigente, ancor prima d’una linea politica - che il PD ha peraltro mutevolmente cambiato nel tempo (alleanze o meno, varie leggi elettorali...) - contro reiterate incursioni, provenienti dall’esterno del partito. Incursioni che hanno fatto registrare troppe volte un’eco di sirene interna al PD stesso. Come se si fosse in presenza di una vera e propria OPA, considerata da taluni persino opportuna o non del tutto ostile, dopo il fallimento di una scissione neocentrista che mira oggi alla divisione ed allo sfascio del PD, su cui poter lucrare per nuove avventure, sia per la propria sopravvivenza, che per la nomina del Presidente della Repubblica ed i seggi nel prossimo Parlamento.


“Costi quel che costi”, ora tocca a noi

E’ stato giusto porre fine all’accanimento terapeutico d’un confronto che si stava avvitando sugli incarichi ministeriali, al punto da sfasciare anche quella positiva alleanza che sul Conte 2 si è determinata tra Pd, M5S e Leu. Una alleanza che, seppur non del tutto consolidata, va confermata, come hanno sostenuto sia Zingaretti che Orlando, a nome del PD. Operazione certo difficile, ma possibile se son chiare le prospettive del futuro. Senza rimuginare impossibili ritorni alle diverse origini di ciascuno. Di fronte alle gravi emergenze del Paese oggi ci si impone il sostegno alla proposta di Draghi avanzata dal Presidente Mattarella. Nulla merita - neppure la polemica - la bulimica e millantata rivendicazione di troppi padri putativi della proposta di Draghi. Per noi fondamentale oggi è il giudizio sul futuro del suo Governo, consapevoli che esso coincide con la decisione del presidente Mattarella. Questo il punto di non ritorno d’un rischio, non già d’una crisi politica, ma d’una crisi del sistema istituzionale, di cui essere consapevoli. Con un Presidente che, avendo fatto - anche a differenza di alcuni suoi predecessori - della sua “neutralità politica” la cifra rigorosa del suo mandato, renderebbe l’eventuale fallimento del “Governo del Presidente” ancora più drammatico di fronte alle tre gravi emergenze da lui richiamate. Il PD ha già risposto con coraggio e chiarezza, consapevole anche del valore d’un percorso da condividere con gli alleati del Governo uscente. Consapevole altresì che le decisioni di oggi segnano il destino del futuro.
Nel dibattito si fa riferimento al precedente Governo Ciampi inteso come governo tecnico e politico. Sta bene. Ma ancor più rilevante è tale evocazione perché – ora come allora – essa si è posta come una soluzione emergenziale che, seppur diversamente motivata, rinvia anche oggi ad un cambio di sistema politico.


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