Ho condiviso l’impostazione rigorosa sulla vicenda Coronavirus proposta dal Governo Conte, così come la linea prudenziale imboccata dalla Fase 2. Ma non nascondo la mia obiezione sulla vicenda della esclusione dei fedeli per funzioni religiose in Chiesa, come è stata riconfermata dal Governo.
Non per ragioni di opportunità politica, a fronte delle reazioni scomposte ed evidentemente strumentali della Destra, che già ci aveva provato. Non per i grandi principi di libertà religiosa che nessuno ovviamente vuole conculcare. Ma per due valutazioni che a mio modo di vedere vanno tenute in seria considerazione.
La prima, e più evidente, è quella della adozione di un criterio di distanziamento sociale, a garanzia della salute, che viene applicato per vari spazi pubblici, per i trasporti, negli uffici e nei luoghi di lavoro… che a mio parere ragionevolmente può e deve essere applicato anche nelle chiese e nei luoghi religiosi, avendo assicurate le necessarie garanzie di rispetto del distanziamento da parte dei diretti responsabili e più in generale della CEI, come peraltro essa si era e si è impegnata a fare.
La seconda valutazione di carattere generale, oltre che evidentemente religioso - che sottolineo da laico non credente – è di natura morale e civile. Conclusivamente anche di natura politica.
Soprattutto in momenti drammatici come questi, dove il dolore si intreccia con le riflessioni sulla fragilità ed il valore della vita penso che tutti gli spazi e le occasioni di riflessione, di preghiera, di raccoglimento, di meditazione, e tra queste indubbiamente quelle offerta anche dalle Chiese e da luoghi religiosi, possano costituire motivo anche per poter riguadagnare fiducia, solidarietà, speranza e coesione sociale nel futuro delle nostre Comunità, anche locali.