Partito

Svolta o rifondazione del PD?

IL REALISMO DI LETTA PER IL “LABORATORIO” DEL NUOVO PD
di Claudio Bragaglio
Presidente della Direzione lombarda del PD
(Giornale di Brescia, 30 marzo 2021)

Svolta o rifondazione del PD? La seconda, direi.
Si tratta infatti d’un cambiamento rispetto non solo al renzismo, ma ad alcune scelte originarie del PD. Si sostiene l’alibi che “il vero PD non è mai nato”, ma senza rendersi conto che tale giudizio - dopo 15 anni - è ancor più liquidatorio.
Nelle scelte di Enrico Letta segretario colgo un tale cambiamento perché sovverte il quadro del PD veltroniano, riprodotto in varie fogge da una decina di segretari e reggenti. E già questo - insieme ai molti Padri costituenti che son spariti - la dice lunga.
Molte le cose deludenti da lasciarci alle spalle. Lo schema bipartitico, la famosa “vocazione maggioritaria” in versione “strong”, la coincidenza – scritta nello Statuto! - tra segretario del PD e il capo del Governo, le leggi elettorali ipermaggioritarie per desertificare le forze alleate, ma concorrenti, le liste elettorali decise a Roma, il “mito fondativo” delle primarie…
Negli anni persino due PD, come “gemelli siamesi”, si son trovati tra loro uniti, ma con opposte vite. A livello nazionale un primo PD ha seguito quel tracciato appena richiamato, ma senza mai vincere una elezione, mentre un secondo PD nei governi locali ha, in direzione opposta, promosso le più ampie coalizioni, spesso vincendo e da protagonista. Come nei vari Capoluoghi lombardi, compresa Brescia, con la grande alleanza del Sindaco Del Bono nel 2013 e ‘18.
La convivenza di tali opposte strategie ha portato il PD alla crisi. Crisi di rappresentanza politica, oltre che sociale e territoriale. Ma non solo. Ben sapendo come il bipartitismo non possa che spostare l’asse della contesa elettorale su una linea centrista, moderata e neoliberista, lasciando ampio spazio a movimenti populisti di sinistra e ad allo stesso M5S.
I sindaci nel rivendicare – giustamente – un ruolo nazionale hanno però motivo anche per se stessi d’una riflessione critica in quanto molti si sono adeguati alle scelte prevalenti nel PD senza proporre come linea nazionale, quella opposta e che da loro stessi era promossa nelle città. Ovvero non la “vocazione maggioritaria” del PD, ma la “vocazione coalizionale”, con premio di maggioranza per le coalizioni stesse. E con una conseguente legge elettorale nazionale.
La “vocazione coalizionale”, a mio parere, è l’asse rifondativo del PD, proposto da Letta, che rinvia ad una diversa visione – quella ulivista - della rappresentanza politica, sociale e civica.

ll Libro: Il PCI bresciano. Una breve storia 1921-1990

IL CAPITALE UMANO.FOTO DI GRUPPO CON PCI - Il Libro: Il PCI bresciano. Una breve storia 1921-1990
di Massimo Tedeschi
(Corriere della Sera, Giovedì 25 marzo 2021)
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Quando il Partito comunista italiano nacque cent’anni fa, da una scissione durante il congresso socialista di Livorno del 15-21 gennaio 1921, la provincia di Brescia era una “cenerentola” nella geografia del nuovo partito. I bresciani assegnarono a Bordiga 230 dei 1268 voti congressuali di cui disponevano e quando - due settimane dopo - in piazzetta Legnano in città aprì la prima sezione del nuovo Partito, che aveva nel sindacalista Marcello Verdina il dirigente più esperto, il PdCi di Brescia era povero di quadri e risorse finanziarie, privo di addentellati nella realtà cooperativistica e nell’associazionismo operaio. Improntato a un’organizzazione di tipo militare (gli “Arditi del popolo”), animato da propositi rivoluzionari, nelle elezioni di maggio misurò nel Bresciano tutta la propria debolezza: ottenne 521 voti contro i 37mila dei socialisti, i 44mila dei popolari, i 25mila del blocco liberale. Un’avanguardia esigua e disorganizzata, schematica nelle analisi, in attesa messianica della rivoluzione, ossessionata dalla polemica contro i socialisti che però a Brescia non lasciavano spazio, essendo in maggioranza massimalisti (dunque “di sinistra”). Nel 1922 il PdCi a Brescia ha 108 iscritti, già esposti a licenziamenti e arresti. Ci vorrà l’arrivo di un’altra frangia scissionista dei socialisti, nel 1924, per irrobustire le fila di un partito che, inquinato da informatori della polizia, verrà subito scompaginato ed entrerà infine in clandestinità.
A cent’anni dalla nascita del Pci nazionale anche il partito bresciano ha ora un suo manuale storico grazie al libro “Comunisti. Il Pci bresciano. Una breve storia 1921-1990” (Liberedizioni, pp. 152, euro 15) promosso dalla Fondazione Ds Brescia. Il curatore Marcello Zane ha chiesto a quattro autori – Gianfranco Porta, Paolo Corsini, Paolo Pagani e Claudio Bragaglio  - storie, racconti e testimonianze dei settant’anni di storia dei comunisti bresciani. In attesa che qualcuno cominci a studiare il ponderoso archivio del partito, in fase di riordino presso la Fondazione Micheletti, questo è il più aggiornato manuale a disposizione. I dilemmi della collocazione internazionale del partito, le dispute ideologiche, le sconfitte della Storia rimangono sullo sfondo. Anzi c’è una certa propensione ad iscrivere a posteriori il Pci nel fronte della socialdemocrazia europea, sorvolando sul fatto che l’Italia non ha avuto la sua Bad Godesberg, che lo “strappo” di Berlinguer con l’Urss nel 1981 non divenne rottura, che quando Umberto Terracini nel 1982 affermò che “a Livorno aveva ragione Turati” la sua uscita venne accolta con imbarazzo, e che il Partito approdò all’Internazionale socialista solo nel 1992, quando il Pci non c’era più, il muro di Berlino era caduto e sulla scena c’era il Pds.
“Comunisti” lascia sullo sfondo questi aspetti, che fanno della storia del Pci un nodo sostanzioso e controverso, insomma non “pacificato” della storia italiana. In compenso il libro offre un racconto – ora partecipe, ora affettuoso – degli uomini e delle donne che hanno speso la vita per un ideale, un credo politico, un’organizzazione ferrea, uno slancio morale, una passione militante, un governo progressivo delle istituzioni e della società bresciana. “Comunisti”, appunto.


Il PD di Letta: centralità della coalizione

Chi ritiene Letta l’ultima “chance” per il PD deve imporsi un chiarimento sugli errori di questi anni. Compresa la liquidazione dell’Ulivo. Tale “svolta” riguarda non solo Renzi, diventato l’alibi sbrigativo per troppi “gattopardi”. Dopotutto anche Renzi è stato a tutti gli effetti il PD, con il 70% dei consensi alle primarie, e non già una improvvida “deviazione”.
Se un Letta segretario dice “coalizione” e Veltroni, nel sostenere Letta, dice “o il PD è a vocazione maggioritaria o non è” significa sostenere tesi opposte. Con Veltroni che ripete se stesso dal 2007, ma avendo fatto il Segretario - dopo aver vinto con 3,5 milioni di votanti alle primarie – solo per 16 mesi per poi andarsene. In fatto di “verità”, quella richiesta da Letta, si procede ancora nella nebbia.
Se la “vocazione maggioritaria” è un richiamo all’interesse nazionale d’un partito, ci sta. Ma se invece è una politica dirimente significa che il “focus” della battaglia si sposta nel campo degli alleati, tutt’altro che bendisposti verso “vocazioni minoritarie” o a dover sparire in omaggio alle vocazioni del PD. Infatti…
Non è storia solo di oggi pensando alle divisioni tra il PCI berlingueriano ed il PSI craxiano, con il dibattito aspro sulla “egemonia” intavolato allora da Norberto Bobbio, con l’epilogo che sappiamo. “Avversari”, quindi, diventano proprio gli amici recalcitranti a fronte d’un loro ruolo minoritario. Ed è ciò che è già avvenuto quando le “vocazioni maggioritarie” si sono divise tra i fautori d’un partito democratico sul modello americano (Prodi) ed i sostenitori del modello socialista europeo (D’Alema). Il tutto giocato - allora sulle spoglie d’un Ulivo da poco nato – anche sul referendum attivato nel 1998 per l’abolizione della quota proporzionale del 25% del Mattarellum.
Ma se Letta evoca oggi il Mattarellum, e non già per parlarci della preistoria, è un problema.
L’Ulivo s’è sfasciato sullo scoglio, più che delle 35 ore di Bertinotti, sulla minaccia della liquidazione delle liste di partito presenti in quel 25% di proporzionale, che era poi l’anticipo del “partito unico” dell’Ulivo. Si dirà: bassa cucina. Già ma pur sempre cucina di cui vive la politica, se immaginata nel suo pluralismo e nelle sue autonomie di partito.
La “vocazione maggioritaria” tende per logica di cose – vedi Veltroni al Lingotto – al bipartitismo e comporta una legge elettorale maggioritaria conseguente. Ma anche un relativo “fuoco amico”!

Un convinto consenso per Letta Segretario

La proposta della candidatura di Enrico Letta alla Segreteria Nazionale del PD - che mi auguro possa da lui venir accolta -  merita, a mio parere, di essere condivisa e convintamente sostenuta.
La necessita di “salvare il PD, rinnovandolo” è assolutamente inderogabile, in particolare con riferimento alla profonda crisi che vive il Paese ed alla necessità che il Governo Mattarella-Draghi sia all’altezza del suo difficile compito, pienamente sostenuto dal PD e dal centro sinistra.
Per questo è per nulla opportuna la soluzione transitoria di un “reggente” e l’immediata indizione di un Congresso con mesi di ulteriori tensioni, sconquassi ed instabilità, magari fomentati da settori per quanto marginali del partito stesso, come peraltro è avvenuto ed ha denunciato il segretario Zingaretti con le sue stesse dimissioni.
Bisogna “ritornare allo Statuto”, con i gruppi dirigenti che si assumono le proprie responsabilità, con i Congressi celebrati a scadenze statutarie. Dando così al Segretario eletto lo spazio e la fiducia della propria azione politica, con il voto di una Assemblea con un migliaio di delegati congressuali pienamente legittimati.
In Letta si riflettono capacità, autorevolezza, una linea che dall’Ulivo al PD, ha rappresentato una componente cattolico democratica costitutiva del pluralismo del PD, aperta da sempre al dialogo con la sinistra riformista e le altre componenti liberaldemocratiche ed ambientaliste. Con un’idea di centro sinistra particolarmente attenta al mondo del lavoro e dei ceti produttivi. Così come Letta ha dimostrato nel tempo con intensi rapporti con le aree del Nord, della Lombardia e con il rapporto coltivato con la stessa realtà bresciana, che lo ha visto frequentemente presente ed attivo.

Con Zingaretti. Sono in gioco l’autonomia ed il futuro del PD

Vi sono momenti drammatici di verità a cui non potersi sottrarre. Così ha fatto Zingaretti, con uno strappo profondo nel PD. E – finalmente - ha fatto bene a farlo, a fronte della vergogna coltivata – e da lui denunciata – da una parte dello stesso PD. Ognuno di noi - al di là di correnti o di responsabilità: la mia quella di Presidente della Direzione lombarda del PD – oggi si ritrova solo davanti allo specchio di se stesso. Senza alibi od ipocrisie da esibire. Mi auguro che la determinazione delle dimissioni, espressa dal segretario Zingaretti, venga da lui riconsiderata anche alla luce delle richieste del loro ritiro, ampiamente sollecitate all’interno del PD. Ma non solo.
In ogni caso un chiarimento si rende indispensabile e mi auguro che sia nei termini di un aut..aut... O di qui o di là. Gli appelli farisaici all'unità servono solo a guadagnare del tempo per predisporre nuove incursioni e destabilizzazioni. Va posto quindi finalmente fine, nel pieno della crisi pandemica e sociale, ad ipocrisie, a velenose lotte sotterranee, al doppiogiochismo, all’infondata accusa d’una subalternità al M5S, ad un logoramento suicida del partito e dello schieramento progressista. Ma, non di meno, a quell’ambigua sollecitazione da “par condicio” per un rientro – come ha proposto Bonaccini - sia di Renzi che di Bersani. La paralisi totale. Scegliendo invece con chiarezza anche in base, non ad un ambiguo unanimismo, ma ad una logica esplicita di maggioranza e di minoranza interna al PD - una scelta politica coerente, anche in fatto di guida politica. Tra la ricostruzione di un centro sinistra a sostegno del governo Draghi od una deriva centrista, di matrice renziana, con relativa ed auspicata esplosione del PD stesso.
E' soprattutto in gioco l’autonomia stessa del PD e del suo gruppo dirigente, ancor prima d’una linea politica - che il PD ha peraltro mutevolmente cambiato nel tempo (alleanze o meno, varie leggi elettorali...) - contro reiterate incursioni, provenienti dall’esterno del partito. Incursioni che hanno fatto registrare troppe volte un’eco di sirene interna al PD stesso. Come se si fosse in presenza di una vera e propria OPA, considerata da taluni persino opportuna o non del tutto ostile, dopo il fallimento di una scissione neocentrista che mira oggi alla divisione ed allo sfascio del PD, su cui poter lucrare per nuove avventure, sia per la propria sopravvivenza, che per la nomina del Presidente della Repubblica ed i seggi nel prossimo Parlamento.


“Costi quel che costi”, ora tocca a noi

E’ stato giusto porre fine all’accanimento terapeutico d’un confronto che si stava avvitando sugli incarichi ministeriali, al punto da sfasciare anche quella positiva alleanza che sul Conte 2 si è determinata tra Pd, M5S e Leu. Una alleanza che, seppur non del tutto consolidata, va confermata, come hanno sostenuto sia Zingaretti che Orlando, a nome del PD. Operazione certo difficile, ma possibile se son chiare le prospettive del futuro. Senza rimuginare impossibili ritorni alle diverse origini di ciascuno. Di fronte alle gravi emergenze del Paese oggi ci si impone il sostegno alla proposta di Draghi avanzata dal Presidente Mattarella. Nulla merita - neppure la polemica - la bulimica e millantata rivendicazione di troppi padri putativi della proposta di Draghi. Per noi fondamentale oggi è il giudizio sul futuro del suo Governo, consapevoli che esso coincide con la decisione del presidente Mattarella. Questo il punto di non ritorno d’un rischio, non già d’una crisi politica, ma d’una crisi del sistema istituzionale, di cui essere consapevoli. Con un Presidente che, avendo fatto - anche a differenza di alcuni suoi predecessori - della sua “neutralità politica” la cifra rigorosa del suo mandato, renderebbe l’eventuale fallimento del “Governo del Presidente” ancora più drammatico di fronte alle tre gravi emergenze da lui richiamate. Il PD ha già risposto con coraggio e chiarezza, consapevole anche del valore d’un percorso da condividere con gli alleati del Governo uscente. Consapevole altresì che le decisioni di oggi segnano il destino del futuro.
Nel dibattito si fa riferimento al precedente Governo Ciampi inteso come governo tecnico e politico. Sta bene. Ma ancor più rilevante è tale evocazione perché – ora come allora – essa si è posta come una soluzione emergenziale che, seppur diversamente motivata, rinvia anche oggi ad un cambio di sistema politico.


Dal PCI al PD il filo interrotto

Cento anni dopo
DAL PCI AL PD IL FILO INTERROTTO
di Claudio Bragaglio

(Bresciaoggi; 24 gennaio 2021)
Strano “compleanno”, quello del PCI. Nato nel ‘21, diversamente rinato nel ‘26 con Gramsci al congresso di Lione, ma – per lo storico Luciano Canfora, nel suo recente libro “La Metamorfosi” - risorto con Togliatti nel ‘44, come un partito nuovo con la “svolta di Salerno”, l’unità antifascista e la Costituente. Molti interventi hanno evidenziato il carattere riformista del PCI, affermato nel tempo in un rapporto sempre più critico con Mosca, dopo l’invasione di Praga nel ’68 e lo strappo per il colpo di stato in Polonia, nell’81.
Ma un punto è di acquisita condivisione. Il PCI, con Berlinguer ed il Compromesso storico, era già oltre i confini del suo stesso nome. Ed è la ragione per la quale è stato l’unico partito comunista a non essere travolto dal crollo del muro di Berlino, segnando, con le sue trasformazioni in PDS e DS, l’orizzonte d’una nuova sinistra, insieme ad altre forze laiche e cattoliche, promuovendo l’Ulivo. Evidente il filo conduttore della politica unitaria togliattiana, berlingueriana ed ulivista nel rapporto tra la sinistra, le forze cattoliche e laiche, seppur diversamente definite ed in mutate situazioni.
Ma nella rilettura critica della storia dei “comunisti italiani” ho notato l’imbarazzata rimozione che ha finora riguardato il passaggio al PD. Che fine ha fatto tale storia nel PD? A maggior ragione l’interrogativo si pone nel rileggere le vicende del PCI-PDS-DS in parallelo con la scomparsa di Emanuele Macaluso, una straordinaria biografia da molti ricordata.
Nella traumatica svolta della Bolognina dell’89, rimaneva in campo la prospettiva d’un dopo-PCI con radici già da tempo ancorate al riformismo socialdemocratico. Mentre con la nascita del PD quelle radici in gran parte venivano divelte, neppure più trapiantate in un nuovo campo. Questa la critica aspra di Macaluso, rimossa dai recenti ricordi, quasi che il suo pensiero fosse fermo al 2006.
Oggi come PD siamo nella tormenta politica. Molti si schierano contro Renzi e la sua “colonna infame”. Ma gli avvenimenti di queste ore sono figli solo d’un suo atto sconsiderato o anche d’una “narrazione” del decennio?

Per uscire dall’emergenza del Paese salvare questo PD e il Centro Sinistra

Leggo un’intervista di Walter Veltroni: “da Biden, un modello per la sinistra, il riformismo coraggioso”. Bella, direi, come bella ha da esser per lui la politica, evocando il titolo – La bella politica – d’un suo libro. Parla di molte cose del tutto condivisibili e pure d’una politica “radicale”. Ma ormai è un vezzo che ha preso pure recentemente Massimo D’Alema. Infatti pure lui parla di politica radicale, senza che per me (lo confesso) abbia un significato definibile in contenuti o schieramenti. Biden avrebbe vinto con una politica radicale? M’è toccato di discutere con un caro amico - sostenendo con voluta provocazione (in versione italiana e bresciana) - che la sua vittoria era quella della migliore storia…democristiana! Mediazione sociale più politica. E’ quanto, infatti sostiene (mi pare) il grande politologo Michael Walzer quando parla d’un “Presidente del Compromesso”. Altro che… radicalizzazione! Anzi proprio tale “radicalizzazione” va contrastata, frutto della estremizzazione politica e della crisi sociale dei ceti medi. Senza potercela cavare con la semantica che allude sì ad un “ritorno alle radici”, ma con la pretesa di voler dir tutto, in politica si dice poi un bel niente. Veltroni e D’Alema, entrambe nostre antiche conoscenze, nelle vesti di…neo-radicali? Mah!
Nell’intervista poi si pone un tema, su cui Veltroni rileva il metodo, senza pronunciarsi sul merito. L’esemplificazione dell’Intervistatore evidenzia le tesi contrapposte di Bonaccini e Bettini, ma lasciando sullo sfondo i due diversi (e ben noti) loro referenti politici. L’uno, Bonaccini, con le diaspore (da Renzi a D’Alema) che dovrebbero rientrare nel PD. L’altro, Bettini, invece con le diverse forze, rappresentative di varie aree che si ritrovino, seppur distinte, in una coalizione. A partire dal leale sostegno di un Governo in piena emergenza per il Covid.

Il perchè d'un sì di Sinistra contro l'aggiramento in atto della Destra. I rischi della difesa della linea Maginot

Nella cornice museale del lavoro in Val Trompia, a Tavernole sul Mella, con il “monumento” d’un maglio ad acqua in bella mostra, s’è svolto un interessante confronto – promosso dai giovani di Face to Face – sul Referendum. Un confronto con argomenti e stima reciproca tra il sen. Eugenio Comincini (Italia Viva) e Fabrizio Benzoni (Azione) per il No, Dario Violi (M5S) ed il sottoscritto (PD) per il Sì. Moderato dal Presidente della Valtrompia  Massimo Ottelli. Nessuno s’è sottratto agli argomenti più noti di carattere costituzionale, ma volutamente ho sottoposto agli interlocutori un elemento che rappresenta per me una novità sostanziale delle ultime settimane, soprattutto con l’uscita dell’on. Giorgetti della Lega quando ha sostenuto che la vittoria del Sì avrebbe rafforzato il Governo Conte. Giorgetti è tra i più intelligenti della Lega ed ha colto la novità d’un clima cambiato. Infatti la riduzione dei Parlamentari era condizionata dal ritenere scontato il consenso del Paese. In base a ciò, chi per convinzione, chi per opportunismo s’è allineato ad un tale “idem sentire”, con un voto in Parlamento quasi al 100%. Con il PD che ha cambiato posizione in quarta votazione in fase di formazione di Governo con il M5S. All’interno poi delle varie forze, compreso il PD, sono emersi sempre più i distinguo dei No. Di vari costituzionalisti e poi di Giornali che han fatto – come un partito tra partiti – quel che sappiamo. Per molti la campagna elettorale si conclude sull’onda di come era cominciata, senza avvertire la potente virata in atto in questi giorni. Con la Destra che ha colto al balzo la novità sostanziale, mentre il Centro Sinistra traccheggia sul già detto e il ridetto. Compulsivamente. Con la conferma del No, buon ultimo, anche di Veltroni.



Referendum: i perché d’un “SI” riformista ed antipopulista

Al Referendum voto SI, pur condividendo alcune ragioni del NO. Come due piatti d’una bilancia che oscillano in equilibrio, ma con un peso che fa poi la differenza. Dirigenti ed intellettuali di sinistra, in cui peraltro si riconosce la mia storia politica, hanno motivato le loro contrarietà. Anche con toni esorbitanti. Da parte mia nessun manicheismo, ma una scelta - quand’anche solo per realismo – del “male minore” o d’un “ex malo bonum”, ovvero la trasformazione d’un Referendum non voluto in qualcosa di buono. Quindi non Marx, ma Sant’Agostino, con la teologia politica che a volte…concorre. D'altronde lo stesso costituzionalista Zagrebelsky s’è ironicamente immaginato come l’incerto asino di Buridano davanti ai due mucchi di fieno del SI e del NO.
In primo luogo va rilevato –  come di recente sottolineato sia dal presidente Bonaccini che dall’on. Martina del PD – che la riduzione dei Parlamentari è da sempre una richiesta del Centro Sinistra. Come, per esempio, nella Commissione Costituente di D’Alema. Si obietta, mal scomodando i Padri Costituenti, che viene ridotta la rappresentatività costituzionale originaria, quando semmai si deve parlare della riforma del 1963 che ha stabilito i numeri attuali. Ma soprattutto non si considera che con le Regioni nel 1970 si sono aggiunti circa 1.100 “parlamentari regionali”, e già allora si pose il tema giusto della riduzione, dovuto al trasferimento di attività legislative alle Regioni. Ma non se ne fece nulla.



Renzi alle Regionali: bene o...non bene...? Sfogliando la margherita

Bene o...non bene...sfogliando la margherita per capire se la notizia sia più o meno buona per il centro sinistra. Propendo per il sì, ma valgono anche i motivi dei “perché”. Per i maliziosi: è un bene, perché finalmente così Italia Viva (IV) pesa il suo voto reale e – visti i sondaggi e non il gruppo dei fedeli nominati in Parlamento - si taglia pure le gambe in questa sua difficile corsa ad ostacoli.
Per me invece può esser una scelta positiva perché così finalmente IV si stabilizza (forse) con la sua collocazione anche nel Paese. Si responsabilizza. Ma può fare il doppio gioco, mi si obietta. Non più di tanto, in presenza del voto sul Presidente nelle Regioni. Se si schiera apertamente, votando per la destra sovranista, IV è presto finita. Se si schiera per dividere ed indebolire il centro sinistra aiutando indirettamente la vittoria della destra…pure! Da sola poi non va da nessuna parte. Su scala più generale farebbe la fine della dimissionaria Patrizia Baffi, già Presidente di Commissione d’Inchiesta Covid in Regione Lombardia.
Penso quindi che simili errori non verranno fatti. Per quanto possano esservi dubbi è il quadro delle convenienze che è cambiato e che va valutato. Un conto è traccheggiare un po’ come IV fa disinvoltamente alle Camere, un conto è un posizionamento alternativo al centro sinistra al momento del dunque d'un voto popolare, un conto se si esce dal Palazzo e dai suoi paciughi per misurarsi direttamente anche nelle diverse realtà del Paese in cui si è già parte di maggioranze di centro sinistra, come p.e. a Brescia a sostegno del sindaco Del Bono.
Quindi sono tra i fiduciosi, ovviamente se si fa anche come PD una politica di confronto aperto, di sfida e di iniziativa…Non pensando che la politica sia solo un PD inchiodato al 20% senza porsi invece nelle condizioni, nel dopo Covid, anche di avere un'idea d'uno schieramento maggioritario che non regga solo sulla somma aritmetica di PD e M5S. Quindi appesi solo alle vicende dei grillini e delle loro possibili circonlocuzioni e divisioni.
Una simile opinione mi viene guardando proprio le realtà locali. Brescia e Lombardia incluse, dove si vince unificando…. Non la faccio troppo facile, ma a mio parere…ciò è possibile, oltre che auspicabile. Vince chi si mette insieme per davvero in grandi flotte e non già chi pensa ad insegne sempre più feroci e battagliere da issare su d'un pennone sempre più alto, ma piantato sul fondo d’una barchetta che da sola poi si rovescia. Quindi immaginando ancora lotte sempre più fratricide ed arrembaggi tra corsari.


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